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NOVELLAZIONE DEGLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE

E COINVOLGIMENTO DEI SOCI E DELLE BANCHE NELLA SOLUZIONE DELLA CRISI ART. 182 BIS VI COMMA –ART. 182 QUATER L.F.

a cura di Avv. Alberto Senigaglia

A distanza di neppure un anno dalle ultime novellazioni, con l’entrata in vigore dell’art. 48 D.Lgsl. 78/2010 il legislatore ha re-innovato la materia nell’evidente tentativo di dare una importante scossa al mercato e accelerare, come da più parti auspicato, la ripresa commerciale delle imprese che operano nel nostro Paese e che sono state coinvolte nello stato di crisi globale internazionale.

Così, tra la primavera e l’estate del 2010, gli operatori del diritto cd. fallimentare (R.D. n. 267/1942) hanno potuto ancora confrontarsi e discutere di risanamento e di riequilibratura dell’impresa, di crisi e di esdebitazione; ma, soprattutto, finalmente hanno dissertato di ulteriori “correttivi”. Il legislatore, infatti, soprattutto per quanto concerne gli accordi di ristrutturazione, pur partendo da un’ “incompiuta”, pare avvicinarsi maggiormente a “centrare” l’obiettivo, cioè la soluzione della crisi.

Dal 2005 il Parlamento nostrano ha operato una radicale riforma della materia fallimentare e le modifiche legislative via via sopraggiunte nel corso degli anni fino al 2010, hanno contribuito a rimodellare, integrare e completare una normativa vecchia e antiquata, non più aderente alla situazione attuale, in cui il mondo imprenditoriale è venuto inevitabilmente a trovarsi. E pur dovendo prescindere in questa sede -per il poco spazio che ci siamo ritagliati- da un’analisi approfondita delle modifiche legislative fin qui intervenute in subjecta materia, preme rilevare l’atteggiamento intenzionalmente premiante verso le imprese attive nel mercato che rischiano di essere estromesse dalla concorrenza per la carenza di risorse interne, ma sulle quali ancora, in concreto, il Ceto creditorio dimostra di volersi affidare.

Rifuggendo le critiche che gli erano state mosse da una parte minoritaria della dottrina, infatti, il legislatore pare aver definitivamente mostrato di prediligere in senso assoluto la soluzione privatistica della crisi d’impresa, ribadendo così la “superiorità” del principio dell’Accordo inter partes (ad ex., art. 182 bis l.f.) rispetto all’ “antiquata” par condicio creditorum (ad ex., art. 67 l.f.). E passando dalla figura del “debitore” a quella, più consona, dell’ “imprenditore commerciale”, ha poi coraggiosamente esteso la soluzione concordata anche alla materia tributaria, ricomprendendo i debiti verso gli Enti assistenziali e quelli previdenziali (v. 182 ter l.f. INAIL, INPS, etc).

Unico neo della disciplina che permane agli occhi dei critici appare il punto della norma che prevede la tenutezza dell’imprenditore in crisi al pagamento regolare dei non contraenti o non aderenti al “Piano” di ristrutturazione. La novella estiva infatti nulla innova o chiarisce sul punto, per cui restano tutte le perplessità da più parti avanzate.

Lo strumento legislativo de quo agitur e che è stato mutuato dal diritto internazionale, appare oggi, a maggior ragione dopo l’intervento completivo in commento, certamente più idoneo a risolvere la situazione di “crisi” dell’imprenditore commerciale, salvaguardando, nel contemperamento degli interessi, da un lato, le ragioni di creditori e investitori, dall’altro, le ragioni dell’Impresa in sé e dell’imprenditore.

Come a suo tempo scritto, la “contrattazione” degli Accordi di cui all’art. 182 bis l.f. è basata sul “consenso” della stragrande maggioranza dei debiti (almeno il 60%); e se ha lo scopo di dare trasparenza alla crisi dell’impresa, consente all’Imprenditore commerciale intenzionato a restare sul mercato a mettere in luce doti personali di creatività imprenditoriale, restando però ancorato ai principi di fattibilità e cautela.

E se il legislatore lascia ancor oggi nelle mani delle parti di concordare le modalità di soluzione della crisi, ribadendo il valore privatistico assoluto della soluzione della crisi d’impresa, ponendo come solo vincolo ostativo l’omologazione del tribunale, il comma VI dell’art.182 bis l.f., entrato in vigore nel marzo 2010, è certo che introduca il principio della riservatezza degli accordi, finendo per anticipare, al fine di cautelare il patrimonio aziendale dell’imprenditore in soluzione di crisi, ogni possibile divieto da iniziative pregiudizievoli dei creditori (azioni monitorie/cautelari/esecutive) e le ragioni di questo nuovo “ombrello protettivo”, discendono dal valore non meramente liquidatorio che il legislatore assegna alla soluzione privatistica concordata della crisi.

Muovendosi in questa direzione, la disciplina in vigore consente all’imprenditore in crisi, il quale abbia in corso trattative solutorie con tanti creditori, tali da superare il valore nominale del 60% dell’intera esposizione, di autocertificarne la pendenza, depositando in Tribunale e nel Registro delle Imprese (trasparenza) un’istanza anticipatoria degli effetti dell’omologa degli Accordi in fieri, volta a paralizzare con effetto provvisorio, ma immediato, il tentativo “invasivo” di tutti i creditori (decreti ingiuntivi/sequestri, pignoramenti, etc.,), soprattutto di quelli che tali trattative abbiano respinto (fors’anche per eliminare dal mercato il concorrente di un’impresa amica…). L’art. 182 bis VI co., in particolare, devolve al Tribunale in sede camerale, oltre alla decisione sulla “cautela” richiesta dall’imprenditore, anche la verifica della documentazione di cui all’art. 161 l.f. (stato analitico attività, bilancio depositato con aggiornamento stato patrimoniale dell’impresa, relazione Professionista, etc.,), nonché dell’autocertificazione dell’Imprenditore circa l’esistenza di trattative in corso con oltre il 60% del totale valore dei debiti e della proposta inviata, unitamente alla dichiarazione del Professionista di idoneità di quella, se accettata, ad assicurare il regolare pagamento dei creditori non aderenti

Dall’applicazione concreta della norma discende che l’Imprenditore godrà cautelarmente di un termine cd. di salvaguardia (al massimo fino a 30 giorni dall’istanza per ottenere dal Tribunale comunicazione della data fissata per l’Udienza); dopodiché, se il Giudice avrà valutato la sussistenza dei presupposti per giungere alla stipula degli accordi (il periculum in mora è in re ipsa) potrà, di fatto, godere della detta inibitoria per un ulteriore termine (al massimo fino a 60 giorni) al fine di concludere gli accordi, depositarli e chiederne la omologazione.

E se pensiamo che questi termini, in ipotesi positiva, vanno a sommarsi a quelli concessi dal comma III, dobbiamo concludere che il legislatore ha, di fatto, finito per concedere all’imprenditore in crisi seriamente “affidabile” e “affidato” uno spatium depositi più che congruo e sufficiente ai fini della soluzione privatistica della crisi che lo ha coinvolto.  

La novella legislativa, tuttavia, non esaurisce qui i suoi effetti: va infatti sottolineato il tentativo di coinvolgere in modo più diretto nella soluzione privatistica anzidetta, i Soci dell’Imprenditore e le Banche. Del resto – rammentiamo- gli Istituti di credito avevano già mostrato di aver interesse a che l’Impresa restasse in vita e si facesse “rifinanziare”, piuttosto che fosse estromessa dal mercato (vedi Codice di auto ABI, circ. Serie L. 9/2000).

E con questo scopo -si legga- con l’introduzione dell’art. 217 bis l.f. il legislatore, dissipando ogni dubbio in materia, ha esentato da responsabilità l’imprenditore per i fatti di cd. bancarotta purché avvenuti “in esecuzione …di accordi 182 bis ovvero del piano di cui all’art. 67 lett d)”. Atteso ciò, e fermo quanto a suo tempo discusso e analizzato in tema di omologazione e inadempimento degli accordi stessi (art.1453 ss c.c.), pur prescindendo anche dall’approfondimento delle problematiche circa le qualità effettive che deve possedere il Professionista “attestatore” della fattibilità del Piano/Accordi, nonché l’incertezza del concetto di “regolare” pagamento dei creditori estranei al Piano e di controllo degli “accordi” nel giudizio di omologazione espresso dalla giurisprudenza di merito (v. ad ex., Trib. Milano, 21.12.2005, e 25.3.2010, in cui la “regolarità” del pagamento concernente gli estranei al Piano veniva intesa come pagamento nei termini e misura identici previsti per gli aderenti… ma, contra, Trib.Brescia 22.2.2006), occorre ora soffermarsi sul coinvolgimento diretto di Soci e Banche.

L’art.182 quater l.f. attraverso l’istituto della prededuzione (art. 111 l.f.) mostra al giurista l’elevato grado d’interesse per il salvataggio di quelle Imprese che hanno ancora “qualcosa da dire” nel Mercato. L’accostamento della prededuzione, infatti, all’erogazione “in qualsiasi forma” di finanziamenti all’Impresa in via di risoluzione della crisi (piano/accordi già omologati ex art. 182 bis l.f.), consente, in pratica, a Soci volenterosi e probi d’immettere della nuova finanza, superando quasi in toto (per l’80% del credito) l’ostacolo della postergazione individuabile nell’art. 2467 (e 2497 quinquies) cc., e alle Banche d’intervenire fattivamentre in sede di esecuzione del Piano/Accordi omologati, e, attraverso l’“ècamotage” legislativo della parificazione alla prededucibilità, anche in fase di proposta del Piano/Accordi (cd. finanziamenti ponte), senza correre il rischio di essere rimborsati per ultimi e, nella maggior parte dei casi, di non recuperare per nulla il proprio credito (finendo per insinuarsi nel fallimento). In pratica, però, l’erogazione sarà condizionata non tanto alla omologazione del Giudice, cui in ogni modo compete la verifica e il controllo documentale ex art. 161 l.f., quanto alla previsione nel Piano/Accordi della prededuzione e funzionalità di tali erogazioni rispetto all’attuabilità di quelli, e al riconoscimento dei primi come tali anche nel Provvedimento del Tribunale (in sede cautelare o in sede di omologazione). Così che il “finanziamento”, da un lato, trova presupposto ed efficacia (ex nunc) nel Decreto di omologa, e dall’altro (cd. finanziamento ponte), nella sola Proposta del Piano/Accordo, giudicata in concreto attendibile e “fattibile” rispetto al “regolare pagamento” dei creditori “estranei”; con la conseguenza che, in quest’ultimo caso, il Provvedimento giudiziale, di fatto, ne convalida ex tunc gli effetti, rendendo prededucibile il credito finanziario.

Va detto, però, che l’emendamento presentato in Parlamento (Sen. Morando) in sede di conversione del D.Lgsl. 78/2010, in cui era previsto il “legame” della prededuzione non tanto con il Provvedimento del Tribunale, quanto con la effettiva destinazione del finanziamento al soddisfacimento dei creditori estranei, avrebbe rappresentato –pensiamo- un ulteriore importante punto fermo verso la scelta “privatistica” adotatta. Il legislatore, invece, ha preferito mediare (come fa sovente) tra gli interessi dell’imprenditore in crisi, quelli dei creditori e quelli dei finanziatori (per lo più le banche).

E se corretto appare l’esclusione dei detti crediti –ormai assunti a rango preferenziale ex art. 111 l.f. - dal quorum richiesto per l’omologazione (60,01% del valore del totale debito imprenditoriale), seguendo l’impostazione del Concordato, in cui il creditore di cui si propone il pagamento in toto non è ammesso al voto, va per contro criticata l’interpretazione della novella (art. 182 quater) nel senso di ritenere –ma già in dottrina lo si teme- che il legislatore abbia voluto con tale previsione escludere dal quorum tutti i creditori prededucibili o che siano pagabili in toto, dovendosi certamente ritenere che tali esclusioni riguardino soltanto coloro che sono esclusi dal principio della concorsualità, ovvero quei creditori cronologicamente successivi e/o funzionali al Piano/Accordi (oggi anche i cd. creditori finanziatori). Non può infatti dirsi che la proposta di pagamento totale, anche in caso di ammissione di Concordato o omologazione del Piano/Accordi corrisponda al futuro effettivo soddisfacimento totale del creditore (potendo, infatti, l’imprenditore fallire).

Tale discorso, comunque, non può certo riguardare il credito finanziario del socio che, stante la prevista prededucibilità limitata (l’80%), resta ammesso al voto de residuo (20%).

Nell’ampia ottica dell’adottata soluzione privatistica della crisi, dunque, va considerata anche l’opportunità di costituire un trust in favore dei creditori. In questo caso, infatti, il patrimonio dell’imprenditore che vi confluirebbe, finirebbe per rappresentare per i creditori una garanzia reale e in caso di fallimento successivo sarebbe esente dalla revocatoria di cui all’art. 67 l.f.. Siffatta segregazione patrimoniale, se prevista per tempo, cioè nel Piano/Accordi depositati e o proposti, potrebbe legittimamente destinarsi al soddisfacimento dei creditori aderenti a tutto danno degli estranei, che non avrebbero più, in concreto, alcun potere invasivo e “aggressivo” (v. sul punto anche Trib. R. Emilia, 14.5.2007, ove il G.E. ha sospeso l’esecuzione promossa contro il trustee). 

Ciò che, a seguito della omologazione del Tribunale, conseguirebbe uno stato permanente e non più limitato ai 60 giorni dalla pubblicazione previsti dal comma III dell’art. 182 bis l.f (oggi, come sopra visto, estendibili, circa a 120-150 giorni, in virtù dell’azione cautelare).

Tale situazione potrebbe da un lato condurre i creditori estranei ad aderire al Piano/accordarsi (anche dopo l’omologazione del 60,01%) o, comunque, ad accontentarsi, soddisfacendosi, semmai, sui beni aziendali residui. Il fallimento, infatti, stanti le esimenti/esenzioni di cui s’è detto, non gioverebbe né a loro né alle loro ragioni e assumerebbe, anzi, mero carattere “punitivo” e di revange, che finirebbe per danneggiare l’attività dell’impresa in crisi e comportare inutili oneri e lungaggini procedurali di liquidazione.

Del resto – osserviamo- l’art. 182 bis l.f. non stabilisce contenuti minimi del Piano /Accordi, avendo come presupposto soltanto l’idoneità del programma a garantire il soddisfacimento delle ragioni di credito di chi al Piano di risanamento non aderisce o resta estraneo all’Accordo di ristrutturazione. E’ormai pacifico in giurisprudenza e in dottrina, infatti, che l’ Accordo  possa avere anche mera finalità liquidatoria.

In realtà, però, la situazione appare ben più complessa, perché l’imprenditore potrebbe anche sovrastimare le attività o dissimulare le passività. E qui interviene l’ulteriore garanzia pretesa dal legislatore: la terzietà del Professionista, revisore contabile (art. 2501 bis IV co. cc-28 l.f.), che ha il compito di giudicare ex ante la fattibilità e attuablità del Piano/Accordi in ragione dell’idoneità di questi a soddisfare (in sede cautelare, della sola proposta se accolta…) “regolarmente” i creditori estranei non aderenti o che non partecipino agli accordi. Con la conseguenza che il trust pare di per sé ab astracto compatibile con la vigente normativa, ma potrebbe essere ex post (in sede fallimentare) ritenuto invalido o in frode alla legge e ai creditori (per il vero, in linea di principio ciò si riflette anche su ogni altra operazione dell’imprenditore “non affidabile”…). Per cui -superata la tesi di parte della dottrina secondo cui il decreto di omologazione non avrebbe natura decisoria, stante l’evidente regime pubblicitario e oppositorio-, in caso di omologazione di Piano/Accordi intervenuta a seguito di decisione sulle opposizioni proposte o (meglio) di non opposizione, i creditori insoddisfatti avranno rispettivamente a loro disposizione l’azione d’inadempimento (aderenti) o di risarcimento (non aderenti) ma non potranno più pretendere la ricostruzione del patrimonio d’impresa (revocatoria), né l’invalidazione di pagamenti/atti/fatti compiuti dall’imprenditore e da terzi (a titolo gratuito/oneroso) in esecuzione del Piano/Accordi omologati. Accade, del resto, che il mancato risanamento dell’impresa o la mancata ristrutturazione della debitoria derivino non tanto da una condotta dolosa, prevedibile, dell’imprenditore, quanto da fatti/fattori estranei all’impresa, sopravvenuti, imprevisti e imprevedibili o prevedibili e non previsti in sede di Attestazione dal Professionista oppure previsti e ritenuti (dal Professionista stesso o dal Tribunale) non inficianti la fattibilità di quelli. Casi, questi, che riguarderebbero –a nostro avviso-, semmai, la responsabilità dell’attestatore verso i soci e i creditori (aderenti/estranei)  per imperizia e negligenza, che non è oggetto del presente intervento.

Da ultimo, certamente non per la portata che ne assume nell’adottata soluzione legislativa, la novella ha costituito per l’imprenditore anche motivo di inimputabilità per atti/fatti di cd bancarotta. L’introduzione dell’art. 217 bis l.f., infatti, prevede ora la scriminante per l’ipotesi in cui atti/fatti siano stati compiuti dall’imprenditore in crisi in esecuzione del Piano attestato/Accordi omologati (v. Cass. SU 28.2.2008 n. 19601; anche Cass. V, 20.5.2009 n. 31168). Ma anche questo delicato tema, per i risvolti imposti, merita seri approfondimenti, ai quali, quindi, rinviamo.

 
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